martedì 26 febbraio 2013

MANGIARE BERE UOMO DONNA (1994) di Ang Lee


飲食男女

Allora c'era Teleppiù.Io guardavo ancora la TV.
Quei miseri +1 e +2 erano l'espansione proiettante all'attuale subbuglio di peiperviù che non avresti mai osato chiedere, appena usciti come si era dall' Ottantavoglia Discopub di Cologno Monzese (Mi) e ti permettevano di scialare di zapping furente, cosa di cui ero ossessivo compulsivo. Successe, un pomeriggio di maggio, ricordo, che la costante carrellata digitante al galoppo di soli frame mi si bloccò come per magia qui:


Due decadi poco oltre, il regista di questo hors d’oeuvre di un lungometraggio appetibilmente appetitoso come pochi, è stato premiato dagli Accadementi Maistream come Troppo il Migliore, per farsi perdonare di non averlo insignito allora, quando questa sua opera era tra i prescelti per miglior film straniero; altre supposte motivazioni, non mi interessano nè riguardano.
Quando il cinema orientale d'autore non faceva ancora figochic, quando ancora quello stesso schermo che fissavo affascinato non provvedeva a tutte l'ore mani di gente impegnata a cucinare a vanvera, i semplici, magistrali suoni e gesti del protagonista, inquadrati per quattro minuti senza un dialogo, scavavano nella mia memoria fanciullinamente proustiana snudando ritmi ed impressioni assorbiti passando ore a guardare le genitrici di due generazioni ai fornelli di quella che poco dopo scoprii essere una cucina da ristorante. Di quelli seri.
Alla fine dell'opening che spero si sia appena guardato, il Maestro Chu, il più grande cuoco di
Taiwan ora in pensione,  risponde al telefono con un serafico "Stavo preparandomi due ravioli..." e la fusione tra culinaria orientale e cinematografia italiana, cui Ang Lee penserà sempre con affetto e strizzatine d'occhio a manciate, è servita, fumante come gli attributi di entrambi i sessi di chi ha avuto la fortuna di crescere in un ambiente mediterraneo lato-sud, dove i pranzi di 4 portate erano la norma e venivano preparati con la più totale, e disarmante a posteriori, nonchalance.
Portato alla ribalta, ancora dubbiosa riguardo l'etichetta di provenienza, delle platee europee a seguito della buona accoglienza di Il Banchetto di nozze dell'anno precedente, Yǐn Shí Nán Nǚ ( il titolo originale, musicalmente bellissimo) è la storia di un Re Lear meno pazzo e delirante -meno Run, per intenderci- ma sempre dotato di tre figlie in età da marito dai caratteri che più diversi non si può. Jia-Ning (Yu-Wen Wang), Jia-Chien (Chien-lien Wu), Jia-Jen (Kuei-Mei Yang) sono, rispettivamente, antipasto, primo e secondo su questa apparecchiata cinematografica; avanguardie occidentalizzate della Tigre di Giada moderna su cui i denti e le lingue di noialtri del Sol Calante avrebbero avuto da penare a cavallo dei due secoli a venire.

Da sinistra a destra, in rigoroso ordine cronologico .
Ingredienti, chiaramente il rapporto conflittuale padre chioccia-figlie femmine adulte e desiderose di indipendenza, ma anche e soprattutto: la solitudine sensoriale dell'età che avanza, il sesso nelle declinazioni più personali ed atavicamente necessarie, la sublimazione dell'amor platonico come danno psichico e come risorsa morale, il tradimento, la truffa sentimentale ed economica, i codici della comunicazione non verbale, la morte come presenza non minacciosa ed ineluttabile, il suono come catarsi dei pensieri, l'effimero moderno annullato dall'antico rituale, la spiazzante Nemesi della genetica, l'imprevedibilità degli esseri umani, le sottili trame olfattive intessute da gesti inconsapevoli, l'amore nella terza età, il fondamento della vita come sapiente e devota preparazione, il retaggio della memoria, la freddezza del dolore, l'abnegazione della disperazione, il vuoto del successo, le bislacche meccaniche del reperimento di elementi e tempi giusti nell'esistenza, il complesso di Elettra, il cibo come fruizione sensoriale altra, disgiunta da quella gustativa, l'abbandono della stabilità, l'intransigenza degli ideali dove meno te l'aspetti, la cucina come Cultura Alta foriera di  messaggi intimi ed universali. Insomma....QB per una preparazione complessa e saporosa, mai stucchevole, ben dosata e sorprendente nella sua evoluzione sul palato.
Si, c'è proprio tutto questo, nella trama. Sembra incredibile oggi, che già si è fortunati che di tematica ben sviluppata in un  plot ce ne sia una, o si inneggia all'arzigogolato pastiche se ve n'è qualcuna in più, ma qui si facevano ancora pellicole per un audience col cervello collegato e non wireless.
Ogn'una delle spezie e delle materie prime sopracitate viene utilizzata nella manipolazione delle vicende delle tre protagoniste, oltre che dell'ineffabile ed affettuoso chef Chu (Sihung Lung) , in modo da svolgere il pasto dello spettatore con la stessa cadenza fondamentale del titolo, estratto di pura saggezza confuciana, apparecchiando una soup-opera inaspettata e agrodolce come la soya.
La macchina da presa vive nella splendida dimora del cuoco, architettata attorno alla cucina, come se fosse lo spirito della moglie e madre prematuramente scomparsa, quasi spiando inquadrature da angoli prestabiliti della casa, partecipa al Pranzo Domenicale Rituale ed Inalienabile come un convitato di celluloide, segue innamorata le mani dell'artista tra i suoi utensili, veglia sui giacigli delle figlie e sui loro turbamenti. Quando esce, cambia registro, documentando in maniera più filmica i passaggi meno immediati delle personalità dei personaggi, che rimangono, per una buona metà delle due ore, sempre al di fuori delle mura domestiche, incapaci di esprimersi, avvolte dalla sacralità spenta del desco.


Nelle sequenze in esterno scopriamo le vite vissute: Jia-Ning, l'ultimogenita, è una vivace giovincella impiegata in un fast food, pionieristico per quei luoghi e tempi, impegnata con gli scarti amorosi di una sua collega confusa. Jia-Chien è una avvennente manager rampante di una ditta emergente di trasporti aerei, elegante, affermata, con la vita gestita impeccabilmente in ogni dettaglio, compresa la parte ginnica dei rapporti fisici. Jia-Jen, primogenita e copia sputata della madre che fu, è un'algidissima vergine infilzata convertita al cristianesimo, la professoressa di chimica del liceo che non ci si augurerebbe mai di avere.
E' forte ed immediato, il contrasto con l'ambiente e l'uomo che le hanno plasmate; quest'ultimo lascia trapelare con riluttanza la sua angustie per l'incombente maturità senile e lo smembramento del nucleo familiare faticosamente difeso, esprimendolo psicosomaticamente con la perdita dell'uso delle papille gustative. Ma la preparazione di cibi sopraffini è nelle mani e nel cuore, non nel palato, ed il Maestro Chu non ha sentimenti che per le sue bambine e per  l'unica occasione che ha di stare con loro a tu per tu: il luculliano pranzo settimanale dove però l'unica cosa che sembra importante è la messa in opera dello stesso, e la famiglia quasi si ammutolisce e perde l'appetito di fronte all'inutile monumentalità di questo metalinguaggio, l'unico che il più grande chef di Taiwan (e quindi di tutta la Cina civilizzata di allora n.d.a) sembra saper usare.

Prendete un'anguria svuotata ed un taglierino, poi procedete con la deco......OH MA VAFFAN.....!

 Non da meno sono le figlie, quanto ad impreparazione al dialogo con l'unica parte delle loro vita che non si sono scelte, malassortite come sono nei gusti e nelle abitudini. E la famiglia, per l'ennesima volta nella storia cinematografica, è fonte surgiva di situazioni che svelano le ansie e le frustrazioni, i desideri e i contrasti anche con il proprio io.
Mentre lo spettatore si arma di bacchette e si prepara ad un melò a più voci, convinto di trovarsi seduto dentro un ristorante tipico, pronto a gustare gli ingredienti della tradizione cinematografica cinese, il regista comincia  ad arricchire le pietanze, che si rielaborano a vicenda nei sensi, mano a mano che si succedono le portate, combinandole nella narrazione senza impensierire chi si stà servendo, preoccupandolo con sapori anomali o inaspettati. Lo fa condendolo con caratterizzazioni estremamente ben guarnite di tutti i comprimari, dalle vicine di casa, madre single e bimba, poi raggiunte dalla temibile e logorroica nonna mondana, al vecchio braccio destro del Maestro, fino al contrasto comico delle personalità dei tre pretendenti delle rampolle Chu rispetto alla figura lapidaria e saggia del capofamiglia.
La riduzione di questo brodo di cottura, che si fa glassa gustosa, è la cura dei dialoghi e delle inquadrature, profuse su attori intensi e negli anni a venire poco sfruttati, molto capaci quanto naturali. Il liquoroso e sapido vino di riso per pasteggiare, è fornito dall'abile contrasto, sonoro soprattutto, ma anche ambientale, che si offre agli occhi non appena inquadriamo appieno il mondo al di fuori del microcosmo artigianale creato dal maestro. Nel momento in cui viene chiamato per "Una vera catastrofe!" nel suo ex regno, il Taipei Grand Hotel che giganteggia monolitico e pacchiano sull'abitato circostante, scopriamo la gradazione alcolica forte ed aspra di un ambiente caotico, titanico, seriale, snaturato dell'essenza stessa degli ideali affettivo culinari del personaggio, in cui l'unico vero talento, quello universalmente riconosciuto ai Grandi dell'Alta Cucina, è il saper dare un nome appetitoso ad una sciagurata pappetta di pesce dalla provenienza non degna. Il tutto servito accompagnato da una carrellata di inquadrature magistrale.

Fantasia di Ali di Drago!

Considerando che tutto il detto fin'ora costituisce solo "il benvenuto del cuoco" o fingerfood, dell'intera trama e che ho la nausea del codice di procedura enogastronomica a cui mi sto autosottoponendo per scrivere, mi fermerei qui. Più oltre sarebbero solo anticipazioni disgustose ed insulse spiegazioni dell'evolversi del plot, più succintamente, in spoiler belli e buoni.
La chiave di violino della terza regia di Ang Lee (sue anche la sceneggiatura e l'editing come i suoi precedenti) stà nel dialogo che instaura con la coscienza dello spettatore, cosa che mi è apparsa lampante quando l'ho rivisto giorni fa in preparazione a questo post, a distanza  di almeno 10 anni e una vita dall'ultima volta. Esattamente come l'analisi organolettica di una pietanza si stratifica a più livelli, sempre più specifici e sensibili, con l'approfondirsi dell'esperienza gustativa dell'assaggiatore, così il carico tematico di Yǐn Shí Nán Nǚ si distribuisce sulle papille riflessive nella misura in cui si è diventati in grado di comprenderlo.
Se imberbe mi avevano ispirato le sequenze di preparazione e le declinazioni dei rapporti identici ma interposti e deformati da persona a persona, ora colgo l'ironia beffarda dell'evoluzione caratteriale e della cromosomicità entropica insita nostro malgrado, e sfuggente a qualsiasi pianificazione, nella Vita. Una sensazione emotivamente struggente ma consolatoria, quasi (HO DETTO: QUASI ) teosofica.
L'aver scoperto quanto poi io debba nella mia vita attuale ai valori propugnati da questo film è semplice sintomo della sua profondità. Posso ben dichiarare con orgoglio che le mie mani e la Mia cucina, oggi, offrono ai miei affetti incarnati il medesimo spettacolo di quelle sequenze così avvolgenti, mentre mi rifugio in maniera prettamente zen dalla vita di tutti i giorni, tra cumino e zenzero, cardamomo e coriandolo.
E non a caso ho inserito proprio queste 4 spezie: alle loro note e declinazioni nelle preparazioni, corrispondono esattamente i caratteri dei quattro interpreti principali e dei IV bisogni fondamentali del titolo.
A voi gli abbinamenti.


      TRAILER INTERNAZIONALE 



 Ancora una, dai. Non vorrete lasciare il piatto della vergogna!
 Concentrato di tutte le abilità del suo creatore, la pellicola si è fregiata di un prolisso elenco di nomination ovunque e comunque, raccogliendo pochissimo. Sarebbe stato automatico e scontato apparecchiarlo in combinata con gli altri film gastronomici più importanti, ma la realtà per chi è addentro nel genere, è che questo fa storia a sè. Per anni mio lungometraggio preferito, ero convinto fosse invecchiato male, dato la quantità di cinema di genere e molto ben fatta nota al grande pubblico occidentale in quest'ultimo decennio; è stato un grande sollievo scoprirlo decantato e maturato insieme ai suoi estimatori. In ultimo, non posso fare a meno di sottolineare, nella  messa in opera narrativa, un omaggio, probabilmente inconsapevole, alla letteratura meno impegnata di Jorge Amado, quella dedicata con trasporto e magnificenza alla cucina bajana ed al suo intessersi con la vita sentimentale dei suoi fautori leggendari.





10 commenti:

  1. urca, quanti ricordi! mi è venuta voglia di rivederlo

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  2. Primo a commentare e conosci anche la pellicola.Capisco perche' la Siura Poison ti tenga cosi' in riguardo,Dantes!

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  3. Questo film mi fa pensare a quanto siano pirla gli americani quando premiano per il cinema.... e rovinano pure i cineasti dell'estremo oriente, vigliacchi!!...ecco mi son sfogato!!

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  4. Eh si: robe da far diventare verdi,grossi e incazzati da strapparsi la camicia e rimanere in pantaloncini!

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  5. Quando Lee sapeva ancora fare i film...

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  6. Ah ma quindi c'è qualcuno che l'ha visto questo film, oltre a me.
    Ché quando lo nomino pare il deserto, qui.

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  7. Non solo visto, ma piaciuto tantissimo! E non ti preoccupare, io per anni ne ho parlato in mezzo al niente.

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  8. tele + ahahah che ricordi!
    Avevo rimosso del tutto!
    E questo film non l'avevo mai visto! Grazie del consiglio :)

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  9. Interesting thoughts, I really enjoyed your blog.

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